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Francesco Amato – La fortunata commedia “Lasciati andare”

1)     Francesco, da cosa nasce l’idea per questo film?

L’idea del film nasce dalla fantasia del mio amico e maestro di Centro Sperimentale (la Scuola Nazionale di Cinema) Francesco Bruni, che in un periodo della sua vita si è trovato a frequentare un corso di spinning in palestra. E siccome la ginnastica fa bene al cuore ma anche alla mente, mentre pedalava ha immaginato la storia di un intellettuale un po’ all’antica che si trova costretto ad andare in palestra, dove incontra una giovane personal trainer che è il suo contrario: tutto corpo e poco cervello. Almeno in apparenza, perché piano piano si scopre che Claudia è una vera sciroccata, ma non è affatto stupida. Quello che ci tenevamo a raccontare, insime a Francesco e a Davide Lantieri, era la dicotomia corpo/mente attraverso due personaggi – due terapisti: lo psicanalista e la personal trainer – che tentano di superare le loro crisi personali grazie all’aiuto che ricevono più o meno consapevolmente dall’altro.

2)     Come ti sei trovato a dirigere un cast così variegato di volti noti alla commedia italiana?

Bè, è molto facile dirigere attori di grande talento, è più difficile dirigere quelli scarsi. Soprattutti perché gli attori di talento solitamente hanno l’intelligenza di mettersi a disposizione del regista e hanno piacere a farsi guidare. Chiaramente tutti gli attori che compongo il cast di “Lasciati andare” fanno parte di questa categoria. Quando gli chiesero come fa a far recitare così bene gli attori nei suoi film, Woody Allen rispose: “scelgo i migliori in circolazione”. Ma oltre al talento e all’aderenza al personaggio, ho proposto il copione agli attori che più erano disposti a “lasciarsi andare”, come recita il titolo del film, portando dentro al personaggio quelle parti di sé che di solito vogliamo restino più nascoste, di cui un po’ ci vergogniamo, i tic e le nevrosi. Insomma, li ho scelti in base alla loro attitudine all’autoironia. Alla disponibilità a prendersi un po’ in giro. Io credo che in fondo prendere in giro qualcuno sia un atto di considerazione per l’altro, di stima o anche di amore. Non è una cosa brutta. E’ piuttosto l’indifferenza a fare paura e a scavare solchi tra le persone.

Personalmente, non mi interessa da dove vengono gli attori, quali palcoscenici hanno calcato prima di fare il mio film. Mi concentro soltanto sul personaggio che voglio creare. Da questo punto di vista, non ho alcun pregiudizio.

3)     Com’è stato il clima sul set insieme a loro?

Il clima sul set è stato ottimo. Eravamo tutti concentrati sullo stesso obiettivo, e in qualche occasione ci siamo anche molto divertiti a sperimentare delle battute o dei passaggi della scena che non c’erano sul copione. Naturalmente quando sul set accadono delle cose che non sono previste il piacere del lavoro si moltiplica. Tuttavia, come sempre in commedia, bisogna riuscire a creare un meccanismo ritmico molto preciso, e questo significa tante prove, tanti ciak, tanto lavoro.

Credo che il lavoro del regista di commedia consista nel nascondere sotto al tappeto tutta la fatica, la stanchezza, la paura, tutte le fasi difficili che attraversa la lavorazione di un film, per mettere in bella mostra sullo schermo solo l’armonia che pervade il racconto. E’ un lavoro duro, ma qualcuno lo deve pur fare…

4)     Specialmente com’è stato il fatto di lavorare con un grande attore come Toni Servillo?

Lavorare con Toni è molto piacevole. Una volta trovata un’intesa sul suo personaggio, il resto diventa automatico. Non è di quegli attori che fanno tante domande, non chiede conto di una scelta, perché si fida di chi gli sta attorno. Una volta che ha deciso di affidarsi al regista e al copione non torna mai indietro, non ha ripensamenti, e questa sua forza incredibile si percepisce e dà molta energia a tutta la troupe.

Prima dell’inizio delle riprese, Toni era in turnè con “Le voci di dentro”. Io lo raggiungevo il mercoledì sera, vedevo lo spettacolo, e la mattina dopo lavoravamo insieme nei camerini dei teatri. Abbiamo ripetuto il testo decine e decine di volte. Io mi registravo tutto sul telefono e poi riascoltavo a casa. Quando sono andato sul set già sapevo come doveva suonare la battuta, già avevo in testa la “musica” del testo e il ritmo della scena.

Quello che ci ha reso complici, credo sia stata una certa tendenza alla maniacalità nella ricerca del dettaglio. Un’attenzione un po’ ossessiva alla sfumatura. D’altra parte, Toni conosce molto bene la materia perché è un regista, io credo sia un direttore di attori formidabile. Analizzare un testo assieme a lui è un’esperienza indimenticabile, per la sua capacità di entrarci dentro, come io che l’ho scritto e lo stavo dirigendo non riuscivo a fare, per poi tradurre tutto in volti e suoni.

5)     Vista la trama del film per l’appunto, tu come ti poni nei confronti di un tema quale il “distacco professionale” che pare essere una disciplina molto rigida nel personaggio del protagonista?

Posso dirti che il regista deve avere una doppia anima: calda e vitale, per trasmettere entusiasmo a quel centinaio circa di persone che è chiamato a dirigere, ma fredda e distaccata per affrontare le scelte più importanti senza farsi vincere dall’emotività. Deve volare alto, ma con i piedi per terra. Non è mica facile… Io parto sempre per i film, sia quelli che alla fine vedono la luce del proiettore, che quelli che purtroppo a un certo punto si arenano, con una forte volontà di distacco. Mi dico: questo film lo voglio guardare da fuori… Non voglio essere coinvolto… E invece poi si finisce sempre per innamorarsi e perdere la testa! E lì esce la tua vera natura…

Io credo che il regista faccia un lavoro all’opposto dello psicanalista. Quello che mi colpisce del lavoro dell’analista è la sua capacità di raccogliere storie e tenersele tutte per sé, vivendole con l’opportuno distacco. In un certo senso è esattamente il contrario di un regista. L’analista ascolta ore e ore di racconti mozzafiato, ma è tenuto a non diffonderli, a condividerli solo col paziente. Cosa che in me genererebbe un sentimento di frustrazione gigantesco. Facendo il regista, la mia vocazione infatti è raccogliere storie e raccontarle.

Dunque, se fossi un analista abbandonerei presto la professione e mi metterei a scrivere dei meravigliosi copioni. Come nel film di Leconte “Confidenze troppo intime”, il mio desiderio sarebbe di sostituirmi allo strizzacervelli, e condividere i segreti della gente. Evidentemente sarei un pessimo analista, pure un po’ cialtrone.

6)     Hai mai pensato di costruire un film o uno sceneggiato a puntate mettendo insieme come trama alcuni aneddoti tuoi o di persone che ti sono vicine?

Molte delle cose che mi capita di scrivere, o di suggerire agli sceneggiatori, sono cose che mi accadono, o almeno che mi riguardano. La maggior fonte di ispirazione è la mia famiglia, i miei genitori, gli amici, i vicini di casa, i vecchi compagni di classe, e potrei andare avanti a lungo. Ma la cosa sorprendente è come le vicende reali che ispirano una scena, poi sullo schermo vivano di vita propria, riuscendo a smarcarsi del tutto dalla realtà e dal ricordo. Talvolta assumono nella finzione un senso addirittura opposto a quello che avevano originariamente.

Questa è la cosa che mi fa più impazzire: come la finzione riesca a rivelare una propria realtà parallela, che di solito è più forte e significante della vita vera. D’altra parte il cinema è lo spazio dell’utopia, dove tutti noi dobbiamo trovare occasione di riflettere la nostra immagine reale, ma allo stesso tempo chiediamo che lo specchio ci restituisca un’immagine un po’ più appagante, virtuosa, coraggiosa di quella che abbiamo mentre andiamo a fare la spesa…

Morale della favola: diffidare dal “realismo”, da quei film che pretendono di filmare la vita esattamente per com’è. Quello non è cinema, è una replica della vita. Il cinema è re-interpretare la vita in una propria chiave personale, che ci faccia credere che siamo in un altrove più interessante di casa nostra.

7)     Credi anche tu che, come nel film, sia possibile incontrare qualcuno che può cambiarci la vita in meglio?

Io non lo so. Ci capisco più di film, dove appunto tutto è possibile, piuttosto che di vita vera. Ti posso dire però che a me è capitato… e me la sono sposata.

Però io vorrei girare la tua domanda: Credi che siamo in grado noi di metterci in discussione e accettare nella nostra vita qualcuno che vuole cambiarci?

Dunque io credo che sia possibile incontrare gente che ci vuole cambiare la vita in meglio, la cosa quasi impossibile è che noi siamo disposti ad accoglierla e a capire che può fare al caso nostro. Osservando la gente, mi sembra questo oggi il vero ostacolo. Tutto il personaggio di Toni è costruito sulla base di questa riflessione, e in fondo tutto il film racconta lo sforzo che quest’uomo fa per accettare che qualcosa nella sua vita debba cambiare, se non vuole ritrovarsi solo e infelice.

8)     Ti sei mai convinto che in questo lavoro, sempre altro punto citato nel film, sia impossibile diventare schiavi dell’abitudine, essendo un lavoro basato principalmente sul cambiamento continuo e dovendo stare in giro per periodi di tempo anche molto prolungati?

La cosa interessante del cinema è che crea prototipi. In una fabbrica le lavatrici vengono progettate e poi realizzate tutte alla stessa maniera. Una volta che ne disegni una, poi tutte le altre saranno esattamente come la prima lavatrice. Il cinema è un’industria, gli investimenti sono elevati, più o meno come per fare le lavatrici, ma l’esito di un film è molto più difficile da prevedere. Lo scrivi, lo progetti, ma poi ci sono sempre degli agenti esterni che lo trasformano, lo rendono unico, diverso da tutte le altre lavatrici. E se più o meno è preventivabile quanta gente avrà bisogno di una lavatrice, calcolare quanti spettatori farà un film prima di averlo realizzato e distribuito è praticamente impossibile. A parte alcuni prodotti di consumo americani. Che a pensarci bene assomigliano davvero molto a delle lavatrici.

Può essere che ogni tanto gli americani si annoino, o si lascino addolcire dall’abitudine. Noi purtroppo no, non facciamo lavatrici, la curisosità di vedere come va a finire ci tiene sempre sull’attenti…

9) Qual’è un altro tema similare che ti piacerebbe interpretare, sempre in chiave comica o non, in un futuro film?

Mi piacerebbe raccontare il tema della “dipendenza sentimentale”, quando senti che non puoi staccarti da una persona.

Ma a pensarci bene questo è il rapporto che hanno Servillo e Carla Signoris in “Lasciati andare”… Dunque questo film l’ho già fatto. Tanto vale prendersi una vacanza.

E al mio ritorno in autunno vorrei fare un documentario sulla vita di Umberto Bossi.

Servizio: Damiano Conchieri

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